Commemorazioni

                                                    

RELAZIONE DEL CAP. ANTONIO DE CARO RELATIVA ALL'ATTIVITÀ SVOLTA DALLA SUA SEZIONE IN AS - NOVEMBRE 1940

RELAZIONE

Ai primi di novembre 1940, allorquando l'offensiva inglese si sviluppava su larga scala alla frontiera libico-egiziana, ebbi l'ordine di assumere il comando di una sezione mista e di portarmi da Tobruk, ove trovavasi il 20º Autoreparto di C.A., fino a Cufra, il cui presidio veniva continuamente insidiato dalle camionette inglesi che scorazzavano in lungo ed in largo tutto il Sahara Libico.

Era un compito lungo e difficoltosissimo, perché occorreva percorrere oltre 3000 chilometri di piste nel deserto, senz'altro rifornimento che quello portato al seguito, in condizioni di ambiente difficilissime.

La sezione composta, composta di 24 autocarri di media portata, O.M. Taurus, Spa 38 R e Bianchi Miles, partì sul far dell'alba, completamente carica di viveri, munizioni e carburanti.

Ci trovammo subito in difficoltà, perché l'instancabile ricognizione aerea inglese che, dopo la distruzione della nostra V Squadra Aerea dominava incontrastata il cielo della Marmarica, avvistò subito gli autocarri sulla pista e meno di due ore dopo, due Spitfire ci innaffiarono di mitraglia, causando pochissimi danni al materiale e nessuna vittima.

Il contegno degli Autieri, tutti richiamati di classe anziana (1901 e 1902), fu ammirevole come sempre.

Appena segnalati gli aerei - premetto che al quel tempo si marciava senza protezione di artiglieria contraerea o di mitragliere- ma portavamo solo due mitragliatrici Fiat 914 per una eventuale difesa della colonna contro incursori di camionette - da parte dei mitraglieri addetti che viaggiavano sulle cabine degli autocarri di testa e di coda della colonna, si era costretti a fermare le macchine e cercare protezione nella sabbia.

I vecchi Autieri, poco fidandosi dell'infida sabbia del deserto, si ficcavano sotto gli autocarri, rannicchiandosi sotto il motore o sotto il ponte il ponte posteriore, in maniera da offrire scarse probabilità di essere colpiti, essendo lo spessore soprastante sufficiente a trattenere le pallottole di mitraglia o le schegge di spezzoni.

Verso le dieci ordinai il primo alt e passai in rassegna gli autocarri, che si presentavano abbastanza bene dopo la prima prova.

Proseguimmo dopo breve sosta, sulla pista carovaniera che diventava sempre più difficile, mentre ogni traccia di vegetazione scompariva alle nostre spalle per far posto al Serir e, sul far della sera, al deserto vero e proprio.

All'imbrunire decisi di fare sosta: marciavamo ormai da 14 ore ed i conta chilometri denunciavano un percorso di 300 chilometri.

Gli uomini erano stanchi e le macchine risentivano del lungo sforzo cui erano state sottoposte: molti radiatori fumavano, due Spa avevano il tubo di scarico completamente arroventato, ma in complesso la prova di questa prima giornata era stata buona.

Verso la mezzanotte aerei inglesi passarono sul deserto, provenienti, con ogni probabilità, da qualche campo di fortuna dislocato nei pressi di Siwa e diretti, presumibilmente, su Bengasi.

A bassa quota erano facilmente riconoscibili per bimotori Bleneheim. Non venimmo individuati, per quanto il passaggio degli aerei (due o tre per volta), si protraesse fino alle prime luci dell'alba. Alle cinque di nuovo in marcia.

Alle diciotto, nova sosta per pernottare, dopo un ulteriore percorso di 180 chilometri. - Il terzo ed il quarto giorno nulla da segnalare, salvo che eravamo costretti a fare lunghissimi giri per evitare posti troppo densi di sabbia, dove le macchine si fermavano gemendo paurosamente e dove occorrevano spesso ore di lavoro per tirarle fuori dalla morsa della tenace compagna del deserto.Incontrammo sulla pista un pozzo al quale ci dissetammo, cambiando la fetida acqua alle borracce, riempiendo i bidoni che portavamo al seguito, e cambiando anche l'acqua dei radiatori.

La sabbia ed il caldo diventavano sempre più insopportabili, tanto che fui costretto a far sosta nelle ore meridiane per cercare di camminare la notte alla luce dei fari, approfittando della frescura che si stende sul deserto dopo il tramonto del sole.

Ma mal me ne incolse, perché venni subito individuato dalla ricognizione aerea inglese, subendo un mitragliamento ed un bombardamento in diverse riprese, perdendo il collegamento tra gli autocarri che si erano sparpagliati nel deserto al cader della bomba da 200 libbre, per cui dovetti desistere dall'idea di marciare di notte e perdere, inoltre, più di mezza giornata per ricongiungere la colonna e ricostituirla.

Fortunatamente nessun danno neanche questa volta: il materiale automobilistico, soggetto all'intenso logorio del deserto, resisteva in maniera esemplare e gli uomini, degni emuli dei loro antenati combattenti nelle passate guerre, sembravano formare un blocco solo coi motori. - Al sesto giorno di marcia incontrammo alcuni meharisti che erano partiti da una piccola oasi della quale non ricordo il nome, i quali ci dissero - per averlo sentito dire - che gli inglesi erano arrivati a Perna.

Con la morte nel cuore proseguimmo, non sembrandoci che la "Bordighera libica" fosse caduta nelle mani dei nemici, non sembrandoci attendibile l'ipotesi che una posizione tanto difesa e tanto strategicamente importante fosse preda delle truppe australiane colà impiegate. - Dopo altri tre giorni di fatiche inenarrabili, quando ormai la meta ci sembrava vicina, una notizia letale ci pervenne a mezzo di un tuareg: la caduta di Bengasi! In preda allo scoraggiamento esaminavamo la situazione su una carta approssimativa della Libia, quando i mitraglieri mi segnalarono un aereo inglese che da lontano, mostrava di planare per atterrare.

Ed infatti lo vedemmo scomparire tra le dune, né sentimmo la ripresa dei motori, per cui fummo certi che l'inglese avesse atterrato in qualche spiazzo libero. - Ci guardammo l'un l'altro con angoscia: per atterrare significava che la località ove eravamo diretti era caduta in mano agli inglesi, per cui la nostra fatica era stata completamente vana! Sentimmo improvvisamente tutta la stanchezza della dura vita all'addiaccio, tutto il bruciore degli occhi arrossati dall'impalpabile sabbia del deserto, sentimmo crocchiare i granelli di rena nella bocca, esaminammo le nostre figure pallide, emaciate, febbricitanti .- Gli Autieri, muti, osservavano, anche essi ridotti in condizioni pietose, mantenute in piedi dalla sola volontà di giungere, di arrecare soccorso ai nostri fratelli. - Qualcuno si dette ad osservare i poveri autocarri impolverati, roventi, sbilenchi, rabberciati alla meglio con pezzi di latta e filo di ferro.

Tutto era stato vano? Un filo di polvere sull'orizzonte ci portò alla realtà: certamente un mezzo motorizzato marciava. - Era indubbiamente inglese, perché le nostre macchine non avrebbero mai potuto - con la sezione di gomme che montavano - sviluppare una velocità tanto elevata.

In fretta, senza mettere in moto gli autocarri per non essere avvistati a nostra volta, ci sparpagliammo per le dune, con i nostri moschetti e le bombe a mano, decisi a render dura la vita ai vincitori del momento, ma nulla accadde: il filo di sabbia ricadde pigramente al suolo ed il veicolo si allontanò, evidentemente alla volta della ormai vicina Cufra. La notte partimmo, piegando decisamente verso sud.

Occupata Derna, occupata Bengasi, occupata Cufra, non mi restava altro che tentare di raggiungere Tripoli, ove avessi avuto la possibilità e la fortuna di arrivare alla capitale della Tripolitania attraverso il Sahara Libico, tenendomi lontano dalle poche piste ordinariamente battute, per non rincorrere nel pericolo di essere catturato con armi e bagagli.

La carta automobilistica in mio possesso recava semplicemente le indicazioni delle oasi e degli "Uadi" e, dopo averla studiata attentamente, dissi ai miei Autieri che, col solo ausilio delle stelle avremmo dovuto marciare di notte a fari spenti, per evitare di essere immediatamente avvistati, avremmo dovuto percorrere oltre 1000 chilometri di deserto, per non cadere prigionieri nelle mani del nemico.

Richiesi ogni sforzo, razionai l'acqua già imbevibile, ordinai una guardata generale agli autocarri mal ridotti. La notte partimmo, a fari spenti, approfittando del chiarore della luna nascente. Costeggiando le dune, tenendoci a stretto contatto l'un con l'altro, per quanto ciò fosse penosissimo per la polvere, in un'infinità di giri e rigiri per evitare insabbiamenti, soccorrendo gli autocarri che sprofondavano fino al ponte, sfibrandoci in quell'estenuante marcia senza fine, vedemmo al fine sorgere un'altra aurora.

Sulla sommità d'una un arabo, quasi mimetizzato con terreno infido ci osservava; ci precipitammo per catturarlo, non sapendo se fosse amico o nemico. Era uno spahis della II Divisione Libia, sbandato, che, nativo di Gadames, aveva cercato di raggiungere questa località con mezzi fortuna, dopo la distruzione della sua Divisione. Ma sembrava che anche Adames fosse stata occupata, ed il fedele soldato si era aggregato ad carovana di cammellieri diretta in Tunisia nella speranza di raggiungere Jefren o Nalut e discendere verso Tripoli, che egli sapeva non essere stata raggiunta dalle truppe inglesi

. Apprendemmo che ribelli francesi agivano al confine tunisino, operando contro nostri presidi avanzati, e scomparendo poi nell'immenso deserto. Insomma eravamo molto ben concitati e decisi di prendere l'arabo con noi: avrebbe potuto farci comodo sia per il senso di orientamento innato nei nativi, sia per servire eventualmente da interprete. Riposammo, se può chiamarsi riposo il girarsi sulla sabbia rovente, afflitti dalle mosche insistenti, torturati dalla sete, dalla sporcizia e dagli insetti, invano cercando refrigerio rifugiandoci all'ombra degli autocarri.

Gli uomini della colonna facevano veramente impressione: magri, con le barbe lunghe, gli occhi arrossati, la maggior parte sofferenti per l'enterite dovuta all'alimentazione esclusiva di cibi in scatola, senza alcun genere di conforto, senza alcun medicinale legati solo al pensiero del mezzo, della famiglia e della Patria immortale. Al mattino si levò il ghibli e infuriò per giorni cambiando completamente la fisionomia delle dune del deserto, bloccandoci sulla sabbia e costringendoci all'estenuante lavoro di spalare ogni tanto il terreno intorno agli autocarri per impedire che fossero completamente sotterrati. Non si poteva marciare in quelle condizioni, data che la nuvolaglia di polvere impediva ogni visibilità, e giacevamo sotto i tendoni, completamente esausti, con la faccia e gli occhi coperti, alfine di non aspirare tanta sabbia.

Muktar, lo spahis, ci comunicò che la sua carovana era stata dispersa da un'altra tempesta - il simun - ed il suo cavallo era fuggito davanti la bufera. Non era stato possibile rintracciare la carovana, perché il vento aveva cancellato ogni traccia di orme dalla sabbia. Al quarto giorno tornò la calma e riprendemmo la marcia.

I nostri autocarri non avevano più figura di macchine, ma sembravano delle strane sagome rossastre, avanzanti a strattoni ed a spintoni, ansimando come cosa viva tra i saliscendi delle dune: pochissime balestre avevano resistito all'immane travaglio e si vedevano pezzi di legno, murali, strati di assicelle in funzione di acciaio, cofani sempre alla ricerca dell'illusorio refrigerio del raffreddamento ad aria, tendoni laceri, pendenti da tutte le parti, cassoni sfondati dagli immancabili sbandamenti del carico, sponde pendenti dalla rottura dei ganci di fissaggio.

Due Bianchi e tre Taurus avevano perduto le marmitte di scarico, per cui i gas uscivano all'aria con enorme fragore; uno Spa doveva essere rimorchiato per la rottura dell'assale.- Il carico aveva dovuto essere ripartito tra gli altri autocarri, dato che non sarebbe stato possibile rimorchiare nella sabbia una macchina carica.

Appena potevamo fermarci era necessario pulire i filtri, le pompe di iniezione, la pompa dell'olio, che si incrostavano letteralmente di sabbia, ma gli Autieri - a denti stretti - eseguivano il lavoro come mai avevo visto, trattandosi di questione di vita o di morte. Dopo 40 giorni di marcia giungemmo ad Hon, non occupata dagli inglesi, che sapemmo solo allora si erano fermati ad Agedabia, alla soglia del deserto sirtico: dei ventiquattro autocarri partiti, tre giunsero a rimorchi per rotture: uno con l'assale, un Taurus con la pompa d'iniezione, un altro Taurus con la pompa dell'olio, tutti gli altri con le balestre completamente spezzate, specialmente le anteriori, due sforacchiati da raffiche di mitraglia ed uno col cassone sfondato da scheggia di bomba.

Degli uomini solo tre erano in condizioni da reggersi in piedi; tutti gli altri erano affetti da febbri gastro-intestinali. In complesso la prova fornita dagli uomini e dal materiale fu ottima sotto tutti i punti di vista. La Sezione venne formata con elementi del 20º Autogruppo di C.A. comandata dal magg. MANZO, con elementi dell'Autosezione per Divisione di Fanteria "Sirte", comandata dal Tenente Impelluso e con altri elementi appartenenti alla Divisione 23 marzo ed al V Autogruppo di Novara. L'ordine venne emanato dall'Intendenza Superiore A.S. Della Sezione così formata faceva parte il sottotenente Boldrini Carlo di Roma.

CAPITANO ANTONIO DE CARO


 

04 Agosto 2008/ v06
 


 

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