ALME SOL POSSIS NIHIL URBE ROMA VISERE MAIUS

 

LE VIE DELL'IMPERO

                

Anche Churchill rimase impressionato da quanto l'Italia aveva realizzato nelle sue colonie: "La Libia, l'Eritrea, l'Etiopia e la Somalia, alimentate dal sacrificio del contribuente italiano, abbracciavano un vasto territorio nel quale quasi un quarto di milione di coloni penava duramente ma cominciava a prosperare". Fra i motivi dell'ammirazione di Churchill c'era anche, ma non soltanto, il primato che spettava all'Italia, nella storia delle comunicazioni e dei collegamenti in Africa (strade, ponti, ferrovie, aerei, linee telegrafiche e telefoniche), per aver realizzato la più spettacolare opera di ingegneria stradale di tutti i tempi nel Continente Nero dell'epoca: la lunga litoranea di 1.882 chilometri dal confine egiziano a quello tunisino. Larga sette metri, intervallata da alcuni ponti per superare vari dislivelli, in particolare uno a cinque arcate ciascuna di quasi 20 metri e un atro di 25 metri, godeva della preziosa assistenza di 65 case cantoniere dove abitavano stabilmente due famiglie in due appartamenti dotati ognuno di cinque stanze.
Sulla linea di confine fra Cirenaica e Tripolitania l'Arco dei Fileni, una mole imponente a ricordo e gloria di due fratelli cartaginesi che preferirono farsi martirizzare in quel luogo piuttosto che cedere al nemico.
Vale la pena rievocare la patriottica vicenda. Per porre fine alle lunghe ed estenuanti contese di confine, Cartagine e Cirene decisero di risolvere il problema ricorrendo a un confronto fra quattro podisti, due per parte. Dovevano partire nello stesso momento dalle due città e correte in direzioni contrarie. Dove si fossero incontrati sarebbe stato tracciato il confine. Poiché i fratelli cartaginesi erano riusciti a percorrere un tragitto più lungo, furono accusati dagli antagonisti di essere partiti molto prima del momento concordato, e quindi invitati ad arretrare. L'accusa era ingiusta e pretestuosa, per questo, forti delle loro ragioni e del vantaggio conquistato per la loro patria, piuttosto che cedere si lasciarono seppellire vivi sul posto, al centro del deserto della Grande Sirte. E su quel luogo gli italiani innalzarono l'Arco dei Fileni, con in cima la vistosa riproduzione di un verso di Orazio: "Alme Sol, Possis Nihil Urbe Roma Visere Maius". Almo Sole, Possa Tu Non Vedere Nulla Più Grande di Roma.
La preziosa arteria, che risolse molti problemi di collegamento fra la Tripolitania e la Cirenaica, con un balzo repentino nella quantità di merci autotrasportate, fu chiamata "Litoranea Balbia", dal nome del governatore che l'aveva fortemente voluta e fatta realizzare a tempo di record: Italo Balbo. Il quale ne era comprensibilmente orgoglioso, non solo perché - precisò - "la strada è il primo elemento della civiltà" ma anche perché l'Italia del suo tempo aveva fatto "qualcosa di più dell'antica Roma, osando ciò che i romani non osarono, non poterono o non vollero". Nel ricordare che il territorio attraversato dalla litoranea, ai margini di uno sconfinato deserto,aveva spaventato persino lo storico e proconsole romano Sallustio quando aveva seguito Cesare nella campagna per l'"Africa nova", Balbo volle sottolineare che adesso, riferendosi ai posti di ristoro e di assistenza lungo la strada, erano frequentabili regioni dove, prima, "l'uomo era solo con Dio".
All'impresa avevano partecipato molte piccole ditte, per evitare egemonie sopraffattrici, ciascuna responsabile di un lotto ma tutte impegnate ad iniziare contemporaneamente i lavori sull'intero percorso e secondo un duplice intendimento: equa distribuzione del lavoro e impiego razionale, ma senza ristrettezze, della mano d'opera. Ne trassero vantaggio soprattutto gli operai indigeni. Infatti, ad opera completata - in meno di un anno, nel 1937 - le giornate lavoro degli italiani risultarono soltanto 330 mila rispetto a quelle degli arabi: ben quattro milioni e 510 mila. Per l'occasione, Mondadori pubblicò una preziosa ed elegante ma ormai introvabile opera dal titolo "La strada litoranea della Libia". Le fotografie mostrano geniali soluzioni di ingegneria stradale, il notevole impiego di automezzi e macchinari nei cantieri, le case coloniche scaglionate lungo il percorso, stupende prospettive sul mare e suggestive panoramiche del Gebel cirenaico alle spalle della litoranea.
Con quella strada ebbe inizio un nuovo periodo di storia per la Libia e per tutta l'Africa del Nord, che adesso poteva giovarsi per gli scambi commerciali di quel collegamento veloce dall'Egitto alla Tunisia, dove una volta esistevano soltanto brulle e incerte piste per le lente carovaniere. Oltretutto, la realizzazione della "Balbia" tolse argomenti all'ormai improponibile progetto, caldeggiato soprattutto dai militari per ragioni strategiche, di una linea ferroviaria sullo stesso percorso, di difficile e costosissima costruzione.
Si voltava pagina, ed erano ormai lontani i tempi in cui la Libia, come l'avevamo trovata nel1911, era davvero e soltanto uno "scatolone di sabbia". Dieci anni dopo, nel 1921, si contavano comunque oltre 225 chilometri di ferrovia, che nel 1926 erano saliti a quasi 500, con ulteriori progetti di sviluppo portati a termine negli anni successivi. I piani per la crescita della rete stradale furono in ogni caso privilegiati rispetto a quelli ferroviari, soprattutto quando fu evidente che l'automezzo commerciale si sarebbe imposto sul treno per molte ragioni.
Furono allora potenziate le "strade di colonizzazione" soprattutto in vista degli insediamenti per i coloni che sarebbero arrivati dall'Italia negli anni successivi.
Intanto, più a Sud, nell' Etiopia appena conquistata, fervevano i lavori per dotare la nuova colonia di una adeguata rete di strutture, strade, collegamenti. Di pari passo si allungavano migliaia di chilometri di allacciamenti telegrafici e telefonici. E mai un solo atto di sabotaggio da parte degli indigeni, nonostante l'istigazione della propaganda negussita e britannica. Mai un filo tagliato o un palo abbattuto. Si ripeteva, in sostanza, quanto in altri tempi, in occasione della prima penetrazione italiana nella regione di Massaua, aveva riferito il giornalista Napoleone Corazzini circa un significativo episodio di cui era stato testimone: "Ho visto da lontano una fila di cammelli abbattere involontariamente due pali del telegrafo, e subito i cammellieri accorrere immediatamente per ripiantarli con il massimo zelo". La vicenda è ricordata nel documentato libro "Colonialismo e Comunicazioni" di Stefano Maggi (Edizioni Scientifiche Italiane). In quanto a strade, l'Etiopia era in condizioni disperate. Sulle carte geografiche risultavano percorsi pressoché inesistenti, come la Massaua-Asmara, un lungo solco spesso sabbioso, immerso nel fango nella stagione delle piogge e dominio di polveroni accecanti nei periodi secchi. Ancora mentre era in corso la campagna etiopica furono impiegati 200 mila militari per spianare le strade necessarie alla faticosa avanzata delle truppe a bordo di camion che spessissimo si insabbiavano o dovevano arrestarsi di fronte a fiumi e corsi d'acqua privi di qualsiasi possibilità di attraversamento. E i camion in attività erano 1.700. Penose e sfibranti le fatiche dei soldati per tirar fuori a forza di braccia i mezzi impantanati o insabbiati, e lunghe soste in attesa di poter riprendere la marcia in condizioni meno proibitive.
Nonostante le difficoltà ambientali, ritenute spesso insuperabili ma poi superate con straordinaria ostinazione, a un anno dall'occupazione dell' Etiopia erano già in esercizio 1.000 chilometri di strade, mentre altri 1.800 erano in via di completamento.
E ancora una volta ci meritammo un sorprendente, lusinghiero riconoscimento da parte inglese, con un cavalleresco articolo del giornalista R. Pankkhurst sul "Times" del 29 novembre 1938. Aveva messo in rilievo, con ammirazione, come i tecnici e gli operai italiani impegnati nella costruzione delle strade fossero riusciti a vincere le difficilissime condizioni del territorio abissino, rimasto da secoli allo stato selvaggio e con numerose montagne e pianure soggette ad alluvioni nelle stagioni delle grandi piogge.
Appena conquistata Addis Abeba, era stato varato un vasto piano per la realizzazione di una prima rete stradale per complessivi 2.900 chilometri, ai quali se ne aggiunsero poco dopo altri 1.100 per collegare la capitale alla Somalia.
Istituito un "Ispettorato per le Strade dell'Impero", giunse dall'Italia il ministro dei Lavori Pubblici Giuseppe Cobolli-Gigli per prendere personalmente le redini dell'esecuzione del progetto. A missione compiuta pubblicherà un ponderoso volume, "Le Strade dell'Impero", per documentare il gigantesco lavoro compiuto.
Gli inglesi erano sbalorditi. Lo ammise pubblicamente l'inviato del "Daily Mail", Evelyn Wangh, il quale non riusciva a rendersi conto della circostanza che uomini bianchi europei potessero lavorare fianco a fianco con operai indigeni e svolgere la loro stessa fatica manuale. Uno sconcertante spettacolo, assolutamente impensabile nelle colonie britanniche. Non meno sorpresi gli indigeni nel vedere uomini bianchi che portavano e non prendevano, che si impegnavano a migliorare il terreno con l'impiego di costosi mezzi meccanici e non lo impoverivano sfruttandolo passivamente, che non se ne stavano all'ombra, sulle sdraio, a controllare il lavoro dei nativi.
Insieme con i nostri operai lavoravano circa 50 mila indigeni, di cui circa 43 mila etiopici e il resto sudanesi e yemeniti.
E risultato fu stupefacente: entro il 1940 gli italiani avevano realizzato in Etiopia la più vasta rete stradale di tutta l'Africa, per complessivi 10.794 chilometri. Con due capolavori: la "Strada Imperiale" da Massaua ad Addis Abeba, e la "Strada dei Laghi", che congiungeva Addis Abeba a Mogadiscio. Grazie a queste due arterie, i costi delle merci trasportate si abbassarono rapidamente rispetto al periodo precedente: 100 lire al quintale invece di 493. Una bella rivincita commerciale sugli indispettiti francesi, che gestivano il monopolio dei trasporti ferroviari dal mare - Gibuti - ad Addis Abeba. L'impegno ere stato molto oneroso. Tutti i tracciati avevano dovuto superare brusche impennate nei per corsi di montagna, dove la roccia era durissima, valichi, fiumi, strapiombi, valloni e baratri, enormi difficoltà che avevano imposto fra l'altro la costruzione di un notevole numero di ponti, ben 2.717 fra grandi, medi e piccoli.
Uno sforzo davvero titanico, se si pensa all'enorme quantità di materiale che si era dovuto trasferire via mare dall'Italia a tanta distanza: cemento, ferro, dinamite, binari, vagoncini, motocompressori, frantoi, betoniere, autocarri, impastatrici, pale, picconi, martelli, pneumatici, pezzi di ricambio, auto-officine e quant'altro servì per rifornire 171 cantieri.
Si dovette addirittura lamentare una crisi di ingorgo nel porto di Massaua, dove, ad un certo punto, 100 mila tonnellate di materiale rimasero sui piroscafi perché nelle banchine non c'era più posto per sbarcarli.
Soltanto nei primi 12 mesi erano arrivati nel porto di Massaua 350 mila uomini, 50 mila quadrupedi, l6 mila automezzi, un milione di tonnellate di materiali vari. Con un doppio, congestionato traffico fra le colonne che andavano e quelle che tornavano.
Ma, alla fine, il risultato fu straordinario. Completamente ammodernato l'ancestrale paesaggio abissino e cancellate piste e mulattiere che un tempo erano i soli sentieri percorribili da una città all'altra. Adesso da Asmara ad Addis Abeba - 1.100 chilometri, a una quota media di 2.000 metri - sfrecciavano moderni e veloci pullman della "Gondrand", un servizio passeggeri e postate che non aveva eguali in tutta l'Africa. E lungo il percorso, posti di ristoro, negozi, uffici telegrafici e telefonici, ristoranti. Alcuni rinomati e rimasti famosi, come il "Bologna" e il "Piemonte" nel territorio di Agordat, ricco di rimembranze italiane sin da quando il 21 dicembre 1890 duemila ascari delle nostre truppe coloniali al comando del colonnello Arimoldi salvarono l'Eritrea dalle incursioni dei Dervisci.
Anche nel ricordo di quei lontani eventi, l'Etiopia stava cominciando a diventare "provincia italiana".

 

                                            La via Balbia

                                                    

                              

La Via Balbia è una strada costiera  che collega la Tunisia con l'Egitto e misura all'incirca 1.822 chilometri. Attualmente è conosciuta anche con il nome di Strada Costiera Nazionale (in arabo الطريق الساحلي الليبي). Il km 0 si trovava a Ras Ajdir al confine con la Tunisia francese, mentre il km 1.822 era a Musaid, nella vicinanze dei villaggi egiziani di MusaidSollum.

Inaugurata da Benito Mussolini nel 1937, la strada, originariamente nota come Litoranea Libica, venne rinomina in onore di Italo Balbo, all'epoca Governatore della Libia, vittima del fuoco amico che abbatteva il suo aereo nel cielo di Tobruch il 28 giugno1940.

 Nella Sirtica, al confine fra la Tripolitania e la Cirenaica, venne eretta una grande opera architettonica celebrativa della grande realizzazione, il cosiddetto Arco dei Fileni, progettato dall'architetto Florestano Di Fausto.

 

                 

                 

Anche Churchill rimase impressionato da quanto l'Italia aveva realizzato nelle sue colonie: "La Libia, l'Eritrea, l'Etiopia e la Somalia, alimentate dal sacrificio del contribuente italian. Fra i motivi dell'ammirazione di Churchill c'era anche, ma non soltanto, il primato che spettava all'Italia, nella storia delle comunicazioni e dei collegamenti in Africa (strade, ponti, ferrovie, aerei, linee telegrafiche e telefoniche), per aver realizzato la più spettacolare opera di ingegneria stradale di tutti i tempi nel Continente Nero dell'epoca: la lunga litoranea di 1.882 chilometri dal confine egiziano a quello tunisino. Larga sette metri, intervallata da alcuni ponti per superare vari dislivelli, in particolare uno a cinque arcate ciascuna di quasi 20 metri e un atro di 25 metri, godeva della preziosa assistenza di 65 case cantoniere dove abitavano stabilmente due famiglie in due appartamenti dotati ognuno di cinque stanze.
Sulla linea di confine fra Cirenaica e Tripolitania l'Arco dei Fileni, una mole imponente a ricordo e gloria di due fratelli cartaginesi che preferirono farsi martirizzare in quel luogo piuttosto che cedere al nemico.
Vale la pena rievocare la patriottica vicenda. Per porre fine alle lunghe ed estenuanti contese di confine,Cartagine e Cirene decisero di risolvere il problema ricorrendo a un confronto fra quattro podisti, due per parte. Dovevano partire nello stesso momento dalle due città e correte in direzioni contrarie. Dove si fossero incontrati sarebbe stato tracciato il confine. Poiché i fratelli cartaginesi erano riusciti a percorrere un tragitto più lungo, furono accusati dagli antagonisti di essere partiti molto prima del momento concordato, e quindi invitati ad arretrare. L'accusa era ingiusta e pretestuosa, per questo, forti delle loro ragioni e del vantaggio conquistato per la loro patria, piuttosto che cedere si lasciarono seppellire vivi sul posto, al centro del deserto della Grande Sirte. E su quel luogo gli italiani innalzarono l'Arco dei Fileni, con in cima la vistosa riproduzione di un verso di Orazio: "Alme Sol, Possis Nihil Urbe Roma Visere Maius". Almo Sole, Possa Tu Non Vedere Nulla Più Grande di Roma.
La preziosa arteria, che risolse molti problemi di collegamento fra la Tripolitania e la Cirenaica, con un balzo repentino nella quantità di merci autotrasportate, fu chiamata "Litoranea Balbia", dal nome del governatore che l'aveva fortemente voluta e fatta realizzare a tempo di record: Italo Balbo. Il quale ne era comprensibilmente orgoglioso, non solo perché - precisò - "la strada è il primo elemento della civiltà" ma anche perché l'Italia del suo tempo aveva fatto "qualcosa di più dell'antica Roma, osando ciò che i romani non osarono, non poterono o non vollero". Nel ricordare che il territorio attraversato dalla litoranea, ai margini di uno sconfinato deserto,aveva spaventato persino lo storico e proconsole romano Sallustio quando aveva seguito Cesare nella campagna per l'"Africa nova", Balbo volle sottolineare che adesso, riferendosi ai posti di ristoro e di assistenza lungo la strada, erano frequentabili regioni dove, prima, "l'uomo era solo con Dio".
All'impresa avevano partecipato molte piccole ditte, per evitare egemonie sopraffattrici, ciascuna responsabile di un lotto ma tutte impegnate ad iniziare contemporaneamente i lavori sull'intero percorso e secondo un duplice intendimento: equa distribuzione del lavoro e impiego razionale, ma senza ristrettezze, della mano d'opera. Ne trassero vantaggio soprattutto gli operai indigeni. Infatti, ad opera completata - in meno di un anno, nel 1937 - le giornate lavoro degli italiani risultarono soltanto 330 mila rispetto a quelle degli arabi: ben quattro milioni e 510 mila. Per l'occasione, Mondadori pubblicò una preziosa ed elegante ma ormai introvabile opera dal titolo "La strada litoranea della Libia". Le fotografie mostrano geniali soluzioni di ingegneria stradale, il notevole impiego di automezzi e macchinari nei cantieri, le case coloniche scaglionate lungo il percorso, stupende prospettive sul mare e suggestive panoramiche del Gebel cirenaico alle spalle della litoranea.
Con quella strada ebbe inizio un nuovo periodo di storia per la Libia e per tutta l'Africa del Nord, che adesso poteva giovarsi per gli scambi commerciali di quel collegamento veloce dall'Egitto alla Tunisia, dove una volta esistevano soltanto brulle e incerte piste per le lente carovaniere. Oltretutto, la realizzazione della "Balbia" tolse argomenti all'ormai improponibile progetto, caldeggiato soprattutto dai militari per ragioni strategiche, di una linea ferroviaria sullo stesso percorso, di difficile e costosissima costruzione.
Si voltava pagina, ed erano ormai lontani i tempi in cui la Libia, come l'avevamo trovata nel1911, era davvero e soltanto uno "scatolone di sabbia". Dieci anni dopo, nel 1921, si contavano comunque oltre 225 chilometri di ferrovia, che nel 1926 erano saliti a quasi 500, con ulteriori progetti di sviluppo portati a termine negli anni successivi. I piani per la crescita della rete stradale furono in ogni caso privilegiati rispetto a quelli ferroviari, soprattutto quando fu evidente che l'automezzo commerciale si sarebbe imposto sul treno per molte ragioni.
Furono allora potenziate le "strade di colonizzazione" soprattutto in vista degli insediamenti per i coloni che sarebbero arrivati dall'Italia negli anni successivi.


 

 

 

L'Arco dei Fileni italiano:

pressi di Milano

 
 lunedì 14 luglio 2014 17.17.23

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